Fino ad allora, tale espressione era relegata all’evoluzione delle specie animali, al gioco degli scacchi e poco altro. Da quel giorno, e in meno di una generazione, hanno invece cominciato a pullulare le più disparate teorie sull’opportunità diinscatolare all’interno di quel concetto il vero destino dell’evoluzione del genere umano: se da un lato si ricordano i cosiddetti “pragmatisti”, coloro cioè che attribuivano alla vocazione imprenditoriale l’unica rotta salvifica perseguibile; dall’altro lato, vi erano quelli che potremmo definire gli “aspiranti politici”, prevalentemente intenti a salvaguardare gli aspetti più “soft” del new-deal espansionistico, come per esempio l’intima realizzazione di se stessi.
L’unico aspetto che accomunava le due correnti di pensiero era, guarda caso, che la salvezza sarebbe necessariamente dovuta passare per la crescita: entrambi sostenevano che l’unica via percorribile sarebbe stata l’incremento della produzione e, con essa, una maggiore dipendenza dai consumi.
Oggi, dopo 65 anni, è cambiato qualcosa? A cosa ha portato quel new-deal? Quali sono stati gli effetti sulla civiltà di quella rivoluzionaria intuizione di Truman?
All’indomani del Dopoguerra, l’Occidente ha cavalcato a spron battuto gli stilemi della crescita ad ogni costo. Ai quali, aggiungo io, è stata surrettiziamente affiancata la suggestione sociale dell’irrinunciabilità. Tutto, in un modo o nell’altro, avrebbe potuto (e dovuto) essere raggiungibile: il lavoro, la carriera, il successo, i viaggi, le esperienze, fino a farcire queste prospettive con le loro derivazioni idealistiche: la libertà, l’amore, la bellezza... La postmodernità ha astutamente previsto, per i suoi abitanti, l’illusoria prospettiva della panpossibilità:tutto sarebbe stato a portata di mano! Questo new-deal era, fuori da ogni discussione, diabolicamente perfetto: da un lato, garantiva continuità al paradigma economico dello sviluppo indiscriminato; dall’altro lato, soggiogava intere popolazioni, subordinandole a un imperativo di crescita che avrebbe sempre più richiesto un loro radicale asservimento al mondo del lavoro. Utile o inutile, questo era di secondaria importanza. Gratificante o umiliante, questo era di importanza, invece, nulla.
E le persone? Ci arriviamo...
Sempre in quegli anni, ci ricorda stavolta Zygmunt Bauman, il maggior sociologo vivente, assistiamo all’esaltazione di un ruolo sociale con cui molti di noi, ancora oggi, fanno quotidianamente i conti: la figura del manager. Come molti di voi, so benissimo anch’io cosa significhi essere oggi un manager. Tuttavia, solo recentemente ho imparato che questo ruolo prende forma e vita, proprio in quegli anni, con il solo scopo di intermediare tra la catena di montaggio e la proprietà, divenuta ormai incapace di controllare direttamente tutte le microfunzioni del processo produttivo. Il manager, diversamente da quanto comunemente si crede, non è deputato a prendere decisioni, non gli vengono richieste particolari doti di lungimiranza o di problem-solving. No, niente di tutto ciò! Fin dai suoi albori, il manager deve fare essenzialmente due cose: osservare e riferire. Il perfetto morphing tra un vigilante e una spia. Avvilente? Forse, ma comunque ben remunerato! Unico requisito? La piena fiducia da parte della proprietà. (Quando mi viene chiesto come mai oggi non ci sia meritocrazia nel mondo del lavoro in Italia, io rispondo sempre: “La meritocrazia c’è eccome: si tratta solo di stabilire con quali prassi e atteggiamenti lo si vuole riempire, questo concetto...”).
La figura del manager è quella che oggi, con decine di chili di manuali di organizzazione aziendale sugli scaffali delle librerie, potremmo definire una commodity: un servizio cioè esternalizzabile, in quanto rappresenta un’inutile (a volte, dannosa) interferenza tra la base produttiva e il vertice decisionale della piramide aziendale. Dico “dannosa” perché, in molti casi, assolvere a una mera funzione di rendicontazione di quanto avviene sotto di loro, implica per la proprietà un assorbimento di risorse economiche che potrebbero compromettere la salute stessa dell’organizzazione. O che, comunque, potrebbero essere destinate ad investimenti a più alto ritorno. Ma lo sappiamo: come tutte le cose, la fiducia ha un prezzo, no?
Quindi, paghiamo pure la fiducia – si disse – ma insistiamo però su un altro imperativo, che ha preso sempre più piede dagli anni del boom economico ai giorni nostri: quello della produttività. E, con essa, arriviamo finalmente anche alle persone (che, come ormai sarà chiaro, occupano un ruolo periferico in tutto questo palinsesto organizzativo).
La produttività, per tutti i policy-maker (dal Presidente del Consiglio, al numero uno di Confindustria, fino al vostro caporeparto), è uno snodo strategico imprescindibile: va salvaguardata a tutti costi. Ma... senza esagerare. Perché, se la carichi troppo, la schiena del ciuco rischia pur sempre di spezzarsi.
Ed è così che, come ci ricorda il premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz, grazie anche a un progresso tecnologico ben più che lineare (esponenziale), dagli anni Settanta ad oggi la produttività del lavoro è cresciuta nelle economie occidentali a ritmi forsennati. Molto superiori – per esempio – alla dinamica dei salari reali medi. Ed ecco che, per i più avvezzi alle relazioni macroeconomiche, si spiegano così anche le vere cause degli attuali livelli (sub)occupazionali.
Pensiamoci: per ottenere lo stesso bene o servizio finale – un cesto di mandarini, un stampa fotografica, un nuovo contratto telefonico o un qualsiasi altro bisogno (per lo più, indotto) – al giorno d’oggi occorrono molte ore di manodopera in meno. La filiera è molto più corta e, soprattutto, dove si può fare a meno dell’uomo, subentra la tecnologia. Quella di cui tuttavia non si può fare a meno è chiamatamanodopera qualificata: sempre più rara, sempre più strategica, ma pagata sempre meno, in quanto, mediamente, i salari comunque diminuiscono (e, da qui, il tema delle disuguaglianze distributive, che non affronterò in questa sede, perché troppo vasto).
Tuttavia, proprio per tutelare la produttività (occhio: non i lavoratori), nel decennio a cavallo del nuovo millennio i soloni dell’organizzazione aziendale introducono un concetto nuovo, tanto suggestivo quanto ipocrita: la worklife balance (equilibrio lavoro-vita privata): nell’ambito di una vita dedicata prioritariamente al lavoro, occorre cioè consentire all’unità produttiva di distrarsi (dedicandosi alla famiglia, al tempo libero, agli hobby...). Infine, è di un paio d’anni fa quella che mi piace definire “la controriforma”, perfettamente illustratada una docente della SDA Bocconi, santuario italiano della dottrina neoliberista: la work-life balance deve progressivamente essere sostituita con la worklife integration: lavoro e vita privata non devono cioè essere due “momenti” che, alternandosi, si completano vicendevolmente, bensì divengono due fasi della nostra vita che si compenetrano simultaneamente. Così, per fre un esempio banale, nessuno storcerà il naso se un lavoratore effettuerà una telefonata personale dall’ufficio, ma – simmetricamente – lo stesso lavoratore sarà poi dotato di blackberry, tablet o altri astutissimi “malefit” aziendali, in modo che possa poi essere mantenuto agganciato alla sua attività di giorno e, spesso, di notte (o, come oggi è molto più cool affermare, 24/7).
In questa prospettiva, e citando ancora una volta Bauman, “[...] quei confini sacrosanti che separavano la casa dal luogo di lavoro, e il tempo da dedicare alla carriera da quello cosiddetto “libero”, sono praticamente svaniti; dunque, ogni attività della nostra vita diventa una scelta: seria, dolorosa e spesso seminale, tra carriera ed obblighi morali, tra impegni professionali ed esigenze vitali, nostre e di tutti coloro che hanno bisogno del nostro tempo, della nostra compassione, delle nostre cure, del nostro aiuto e della nostra assistenza.”
Questa è l’attuale situazione, cari amici de “il Cambiamento”. Ve l’ha provata a delineare, per sommi capi, una persona che, pesantemente radicata in questo mondo da una dozzina d’anni, ha la presunzione di conoscerla piuttosto bene e che ha deciso anche lui di fare il manager: cioè... osservando e riferendo.
Il mio think-net si chiama “Low Living High Thinking”. Vivere basso e pensare alto è più di un semplice motto. E’ più che altro un destino. Ed è comune. Solo che, purtroppo, ancora in molti non lo sanno...
Di Andrea Strozzi
Il Cambiamento