di Anne Archet
A mio nonno, bravo tipo dritto come un fuso, piaceva punzecchiarmi quand'ero bambina. Un giorno che ero andata a trovarlo, mentre prendevo posto a tavola per il pranzo, mi chiese: «hai lavorato oggi?». Avevo solo sei anni, cosicché gli ho ovviamente risposto di no. Allora mi levò il piatto dicendomi: «chi non lavora, non mangia». È ovvio che per lui si trattava solo di uno scherzo senza conseguenze, ma io che adoravo i piatti cucinati da mia nonna scoppiai in lacrime.
A mio nonno, bravo tipo dritto come un fuso, piaceva punzecchiarmi quand'ero bambina. Un giorno che ero andata a trovarlo, mentre prendevo posto a tavola per il pranzo, mi chiese: «hai lavorato oggi?». Avevo solo sei anni, cosicché gli ho ovviamente risposto di no. Allora mi levò il piatto dicendomi: «chi non lavora, non mangia». È ovvio che per lui si trattava solo di uno scherzo senza conseguenze, ma io che adoravo i piatti cucinati da mia nonna scoppiai in lacrime.
Quella imposizione mi sembrò così crudele, così ingiusta, che non riuscivo a credere che un uomo che amavo potesse pensare una cosa simile, che potesse rifiutare ad una bambina affamata il cibo con il pretesto che aveva trascorso la sua giornata a giocare, allorché la pentola era piena di buona zuppa e ce n'era senz'altro abbastanza per tutti. Mia madre, consolandomi, cominciò a litigare con suo padre chiedendogli cosa gli passasse per la testa di farmi uno scherzo così idiota. Egli rispose semplicemente: «Bisognerà pure che un giorno impari che nella vita non si ottiene nulla per nulla». Fu la mia prima lezione di morale degli schiavi.
Se considerate normale che si vincoli la sopravvivenza al lavoro, che si faccia di noi tutti dei lavoratori, che si ostacoli la nostra libertà d'azione e di movimento, che ci venga imposta la frequentazione di persone con cui non abbiamo alcuna affinità, che ci venga dettato ciò che possiamo portare oppure no, ciò che possiamo dire oppure no, ovvero ciò che si può o non si può pensare – se trovate che tutto ciò sia naturale e vi domandate come mai ci sono tante persone recalcitranti che non lo tollerano, è perché la vostra mente è stata contaminata dalla morale degli schiavi. Come volervene?
Esattamente come a me, vi è stata inculcata questa morale fin dalla più tenera età, ve l'hanno ficcata in testa sui banchi e nei cortili di scuola, ve l'hanno schiaffata in faccia durante tutte quelle ore di televisione che avete passivamente ingurgitato, ve l'hanno fatta capire in modo spartano quando avete lasciato il nido materno per volare con le vostre ali. Se pensate che «chi non lavora, non mangia» abbia un fondo di verità, se trovate che il lavoro sia non solo una necessità naturale dell'esistenza, ma anche la sola via verso la redenzione, se ritenete che gli individui che non lavorano siano degni di disprezzo e meritino la fame, è perché vivete sotto l'influenza della morale degli schiavi.
La morale è il dominio del bene e del male, contrariamente alla logica che si interessa solo al vero e al falso. Non c'è alcuna verità da aspettarsi dalla morale, se non valori e regole di comportamento imposti ad un particolare gruppo sociale e ad ogni singolo individuo, in una data epoca. La morale degli schiavi è la nostra, quella che ci tiene al guinzaglio giorno dopo giorno, in ogni ora di sonno o di veglia, fino alla morte. È la morale degli schiavi che rende perpetuo l'orrore senza nome chiamato «società», che le permette di presentarsi come minimo come un male necessario anche verso i più ribelli fra noi.
La morale degli schiavi è il sostegno ideologico dell'ingranaggio sociale che ci opprime, quale che sia il regime politico sotto cui soggiaciamo. Ci obbligano a lavorare per avere il diritto di sopravvivere. Allo stesso tempo, esigono da noi che mentre lo facciamo lasciamo la nostra coscienza e le nostre convinzioni al guardaroba, nel nome della lealtà, del rispetto, dell'obbedienza e della disciplina che (sembra) sono dovute all'istituzione che ha la «generosità» di foraggiarci ogni due settimane.
Dopo, hanno la faccia tosta di dirci di fare i bagagli, di andare a vivere o a lavorare altrove se non siamo contenti, se le regole che ci vengono imposte arbitrariamente non fanno per noi, se le attività del nostro datore di lavoro ci fanno schifo. Infine, si scandalizzano e ci gettano in prigione se, opponendoci allo Stato e all'impresa privata e non avendo un «altrove» dove andare a venderci, rubiamo la nostra pietanza invece di attendere che ci venga versata nella scodella con disprezzo.
Il mercato del lavoro è il mercato degli schiavi.
L'etica del lavoro è la morale degli schiavi.
L'etica del lavoro è la morale degli schiavi.
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