giovedì 30 aprile 2015

Jobs Act, il flop: a marzo la disoccupazione è tornata a crescere


Jobs Act, il flop: a marzo la disoccupazione è tornata a crescere
Economia

Il tasso di disoccupazione torna a salire e si attesta al 13%, il livello più alto da novembre dello scorso anno. Anche la disoccupazione giovanile cresce di 0,3 punti percentuali da febbraio al 43%
Il Jobs Act non spinge il mercato del lavoro. Anzi. Nel mese di marzo, quello dell’entrata in vigore della riforma di Giuliano Poletti, la disoccupazione è tornata a crescere per attestarsi al13 per cento, 0,2 punti in più sul mese precedente. Dopo i cali registrati a dicembre e a gennaio, quindi, si riconferma l’inversione del trend iniziata in febbraio. In particolare secondo i dati Istat i disoccupati sono aumentati dell’1,6% su base mensile, con un incremento di 52mila unità. Si tratta del livello più alto dal novembre scorso (al 13,2%). Negli ultimi dodici mesi il numero dei senza lavoro è cresciuto del 4,4% (130mila unità) e il tasso di disoccupazione è cresciuto di 0,5 punti. La crescita è lievemente più forte tra le donne (1,7%) che per gli uomini (1,5%).
Anche il tasso di disoccupazione giovanile (fascia dai 15 ai 24 anni) vola al 43,1%, in crescita di 0,3 punti rispetto a febbraio. I senza lavoro under 25 sono invece 655 mila. Su base annua il tasso di disoccupazione giovanile si è invece ridotto di 0,4 punti. Il numero di giovani senza lavoro, mostra una lieve crescita su base mensile (+8mila, l’1,2% in più). In termini annui, rispetto a marzo 2014, si osserva la diminuzione del numero di giovani occupati (-5,5%, pari a -50mila), il calo anche del numero di disoccupati (-6,9%, pari a -49mila) a fronte di una crescita del numero di inattivi (+1,5%, pari a +66mila). Anche con riferimento alla media degli ultimi tre mesi, sottolinea l’istituto statistico, per i giovani 15-24enni si osserva il calo dell’occupazione e della disoccupazione e la crescita dell’inattività.
“I dati dell’Istat sulla disoccupazione confermano ancora una volta che cancellare i diritti non crea lavoro”, ha commentato a caldo il segretario nazionale della Cgil, Serena Sorrentino. “Il Jobs Act ha un effetto ‘spostamento’ tra tipologie contrattuali, ma aumentare la ricattabilità dei lavoratori e la precarietà non fa crescere l’occupazione”, ha aggiunto sottolineando che “ci vuole un piano straordinario del lavoro e un nuovo statuto dei diritti per le lavoratrici e lavoratori”.
Link: http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/04/30/jobs-act-il-flop-a-marzo-la-disoccupazione-e-tornata-a-crescere/1638781/

giovedì 23 aprile 2015

Regno Unito: Il Registro dei lobbisti è stato lanciato. I link sono accessibili pubblicamente

Secondo il Lobbying Act, le organizzazioni che eseguono operazioni e attività di lobbying sono obbligate a registrarsi e a dichiarare che si atterranno a un codice di condotta.
Tutti quelli che si registrano devono anche dichiarare i nomi dei clienti per i quali eseguono attività di lobbying.
Alle nove di questa mattina, il registro ha preso vita e i diretti interessati hanno creato un account e hanno caricato i nomi dei loro clienti.
L’Ufficio di Registrazione ha comunicato alle organizzazioni interessate che potevano iscriversi al registro in qualsiasi momento, basta iscriversi prima di eseguire attività di lobbying, come definito dal Lobbying Act.
Tra le prime società a iscriversi al registro ci sono Bell PottingerPLMR FleishmanHillard. Tra le sei società fino ad ora registrate ci sono anche la Corporate Reputation Consulting,Incisive Health e la Public Affairs Company.
Come parte del processo di trasparenza l’ufficio del Registro ha provveduto a pubblicare un link accessibile attraverso il suo sito.
Alison White, addetta alla registrazione, ha asserito: “Vi annuncio che dopo soltanto 130 giorni di lavoro oggi il registro è aperto e operativo. Il registro ha l’obiettivo di migliorare la trasparenza del processo democratico e permettere al pubblico di vedere quali interessi sono rappresentati dai lobbisti. Il mio ruolo è di assicurare che tutti quelli che dovrebbero registrarsi si registrino. Continuerò a lavorare con i lobbisti affinché capiscano i loro obblighi”.

Il fallimento della finanza

di Andrea Baranes 
 

Lo scandalo SwissLeaks, in cui la HSBC è accusata di avere aiutato decine di migliaia di clienti a nascondere i propri soldi su conti cifrati, è tornato alla ribalta in queste settimane. L'ennesimo caso che mostra come troppo spesso i maggiori gruppi bancari giochino un ruolo di primo piano in operazioni di al limite, e spesso ben oltre il limite, della legalità.
Parliamo di una banca sola. E' quasi impossibile anche solo elencare gli scandali, gli abusi e i crimini recentemente emersi a carico del sistema finanziario: dalle manipolazioni del mercato delle valute a quello dei tassi di riferimento (Libor e Euribor), dagli episodi di corruzione all'evasione fiscale, a moltissimi altri ancora. La stessa HSBC nel 2012 ha ricevuto una multa di 1,9 miliardi di dollari dalle autorità statunitensi per una vicenda legata al riciclaggio del denaro di cartelli della droga messicani.
Se le conseguenze delle operazioni illecite o apertamente illegali sono devastanti, paradossalmente sono ancora peggiori, se possibile, gli impatti del "normale" funzionamento di questo sistema finanziario. Uno degli esempi più vergognosi, non certo l'unico, è l'utilizzo dei derivati per scommettere sul prezzo del cibo e delle materie prime.
derivati sono contratti finanziari il cui valore deriva appunto da quello di un bene (titoli, indici, materie prime o altro) chiamato sottostante. I derivati sono nati essenzialmente come strumenti di copertura dai rischi: permettono di comprare, vendere o scambiare qualcosa in una data futura, a un prezzo prestabilito. Ho un pastificio e voglio pianificare la produzione. Tramite un derivato posso comprare il grano tra alcuni mesi a un prezzo fissato già oggi. In cambio di una commissione, la banca che me lo vende si assume quindi i rischi delle oscillazioni dei prezzi.
E' la loro stessa natura a renderli strumenti particolarmente adatti alla speculazione. In pratica posso scommettere su un prezzo futuro. Oggi, per molte materie prime e altre tipologie di derivati, nel 99% dei casi non c'è la consegna del sottostante. Come dire che scommetto sul prezzo futuro del grano ma non ho nessun interesse nel grano. Non ho un pastificio né sono un produttore. Sto unicamente realizzando una scommessa speculativa sul prezzo futuro di qualcosa. Per chiarire, è come se su 100 assicurazioni automobilistiche, una servisse a tutelare i proprietari di automobili, le altre 99 a scommettere che il mio vicino di casa avrà un incidente. Scommesse che esasperano l'andamento dei prezzi, creano volatilità e instabilità. Gli impatti e i danni maggiori ricadono tanto sui piccoli produttori di grano quanto sui consumatori, che si ritrovano in balia della montagna russa dei prezzi generata dalla speculazione.
Non solo. Con una "normale" speculazione posso comprare una certa quantità di grano per 5.000 euro, sperare che il prezzo salga e rivenderlo. Al di là dei problemi di stoccaggio, devo materialmente avere i 5.000 euro. Posso invece acquistare per 100 euro un derivato che mi consente di comprare tra un mese lo stesso grano a 5.000 euro. Uso una leva finanziaria di 50 a 1, controllo 5.000 euro con 100 di investimento. Se tra un mese quel grano vale 5.100, realizzo 100 euro con 100, non con 5.000, il 100% di profitto invece del 2%. Se le cose vanno male, le perdite possono essere altrettanto ingenti.
Quando esplode la crisi finanziaria a cavallo del 2008, giganteschi capitali fuggono dai mercati finanziari "tradizionali" e tramite i derivati si riversano sulle materie prime, alimentari e non. Il prezzo dovrebbe essere determinato dall'incontro tra domanda e offerta. Investimenti puramente finanziari creano però un'ulteriore domanda "artificiale", il che spinge al rialzo il prezzo, richiamando altri investitori, ovvero un ulteriore aumento della domanda. Il fenomeno si autoalimenta, si crea una bolla finanziaria. Quando qualcuno inizia a vendere parte il percorso inverso: scoppia la bolla, panico sui mercati e prezzi che crollano.
Sia i produttori sia i consumatori si trovano in balia dell'instabilità. Nel 2008 aumenta il prezzo di tutte e 25 le principali materie prime. Un aumento all'unisono più unico che raro e a maggior ragione ingiustificabile in un periodo di crisi. Il prezzo del grano e del mais raddoppia in pochi mesi senza che si verifichi una siccità o un altro evento naturale. Un aumento così repentino non può nemmeno essere spiegato con il cambiamento di dieta dei Paesi emergenti, la crescita dei bio-combustibili o i cambiamenti climatici, tutti fenomeni di lungo periodo. E' l'ondata speculativa che determina se milioni di esseri umani saranno in grado di sfamarsi o meno.
Se possibile, c'è anche di peggio: l'instabilità e la volatilità non sono "fastidiosi" effetti collaterali, ma la base stessa del gioco. Compro un titolo per 100 euro. Se dopo un anno vale 101 euro ho realizzato una speculazione, ma il margine di profitto è bassissimo, l'1%. Se invece il titolo è in preda a fortissime oscillazioni e i prezzi sono instabili, si possono realizzare maggiori profitti. In una spirale perversa la stessa speculazione è oggi in grado di generare le oscillazioni su cui poi andrà a guadagnare: più scommesse girano su un dato titolo, più i prezzi rischiano di impazzire e più crescono le possibilità di profitti a breve, attirando nuovi squali. Le materie prime, naturalmente soggette a variabilità dei prezzi, diventano con i derivati il terreno di caccia ideale degli speculatori.
La dimensione di questi fenomeni è tale che spesso i prezzi vengono determinati da manovre speculative, non da produzione e commercio. Un ribaltamento delle funzioni paradossale per una finanza che dovrebbe essere uno strumento al servizio dell'economia. I derivati sono diventati the tail that wags the dog: la coda che scodinzola il cane.
Non solo. Acquistando un derivato sul grano non finanzio i contadini o le produzioni. Mentre centinaia di milioni di persone, in particolare nelle aree rural,i sono escluse dall'accesso al credito, somme stratosferiche inseguono profitti a breve da scommesse sul cibo, causando impatti devastanti per le fasce più deboli della popolazione. L'aspetto più incredibile è quindi che la finanza non provoca "unicamente" instabilità, crisi e squilibri, ma non riesce nemmeno a fare ciò che dovrebbe fare. Da un lato sterminati capitali sono alla continua ed esasperata ricerca di qualche sbocco di investimento. Dall'altro enormi necessità non vengono finanziate e fasce sempre più ampie della popolazione, anche da noi, si trovano escluse dai servizi finanziari. Semplificando, domanda e offerta di denaro non si incontrano. Con buona pace dell'idea dei "mercati efficienti" alla base della dottrina neoliberista che si è imposta nell'ultimo trentennio, l'attuale sistema finanziario rappresenta il più macroscopico fallimento del mercato.
Una finanza che, sia direttamente tramite speculazioni o operazioni illecite, sia indirettamente tramite il drenaggio di capitali e la crescita delle disuguaglianze, è alla base dell'instabilità e delle crisi attuali. Di fronte a un sistema politico e mediatico che continua a imporre una visione secondo la quale la finanza pubblica è il problema e quella privata la soluzione, occorre ripartire per un radicale cambiamento di rotta sia riguardo alle politiche economiche sia, più in generale, per un ribaltamento dell'immaginario della crisi che ci è viene quotidianamente raccontato.

(15 aprile 2015)
Articolo tratto dal Granello di Sabbia "Fermate il mondo: voglio scendere!" di marzo/aprile 2015, scaricabile qui.

mercoledì 22 aprile 2015

SCHIZOCRAZIA, RISVOLTO DELLA CLEPTOCRAZIA COLONIALE

Ha suscitato numerosi sarcasmi la notizia che Matteo Renzi, durante l'ultima riunione della direzione del PD, abbia definito Landini e Salvini come "fenomeni televisivi". Ma qui non si tratta solo della storia del bue che dice cornuto all'asino, in quanto è del tutto confacente all'attuale sistema cleptocratico il fatto che Renzi - o, per meglio dire, la sua squadra di ghost-writer - fagociti e vampirizzi anche le critiche delle opposizioni. Una cleptocrazia tende a derubarti anche del linguaggio.
Qualche giorno fa, in occasione della manifestazione della FIOM e della nuova "Coalizione Sociale" lanciata da Maurizio Landini, lo stesso Landini ha dato voce ad un malcontento comune, affermando che Renzi sarebbe peggiore persino del Buffone di Arcore. Come al solito, la dichiarazione è stata occasione per "dibattiti" e prese di distanze. In realtà questo genere di "graduatorie di demerito" va inquadrato nelle semplificazioni del linguaggio quotidiano, poiché è abbastanza ovvio che anche Renzi rappresenti la continuità con i governi che l'hanno preceduto; così come è ovvio che ciò venga avvertito come un aggravamento della situazione. Comunque una caratteristica accomuna il Buffone ed il Buffoncello: entrambi sono fantocci che non sarebbero mai riusciti ad emergere da una vera lotta politica.
La continuità di Renzi con i governi precedenti consiste anche in un'azione di governo insensibile agli equilibri sociali ed istituzionali, e che appare semmai interessata a procedere a colpi di destabilizzazione, di false aspettative e docce fredde. Emulo del Buffone del 1994, il ministro del Lavoro (?), Poletti, lunedì scorso dichiarava di attendersi un milione di nuovi posti di lavoro dal cosiddetto "Jobs Act". In tal modo si suscitano molti scetticismi da catalogare come "disfattismo", ma anche tante speranze, da deludere meticolosamente. Sino a pochi giorni fa, ci si diceva che è cominciata la ripresa; ma ora i nuovi dati ci dicono che la disoccupazione invece è in aumento (doccia fredda). Poletti rassicura che non c'è contraddizione tra le castronerie sparate quattro giorni fa e i dati odierni. Schizocrazia.
La schizocrazia è infatti un risvolto inevitabile della cleptocrazia. Nel suo ultimo DDL, Renzi ha lanciato un modello caotico di "Buona Scuola", nel quale non si preoccupa nemmeno di abrogare le vecchie norme che confliggono con le nuove; salvo poi smentirsi nello stesso DDL, all'articolo 21, in cui si riserva di modificare tutto il modificabile nei prossimi mesi. Si annuncia l'azzeramento della situazione precedente per quanto riguarda le assunzioni, che dovrebbero essere, d'ora in poi, solo per concorso. In tal modo i tremila euro già sborsati dai precari della Scuola, ogni volta, per ciascun corso, dalla SSIS (Scuola di Specializzazione all'Insegnamento Secondario) di qualche anno fa, all'attuale TFA (Tirocinio Formativo Attivo), vengono fatti cadere in prescrizione, cioè incamerati senza contropartita.
I corsi a pagamento costituiscono un mega-business ai danni dei precari. Presentati ogni volta come un'ultima spiaggia, come il treno da prendere in corsa, si risolvono in rapine a cui non corrisponde non solo alcuna preparazione, ma neppure alcuno sbocco. Oltre la vecchia SSIS e l'attuale TFA, vi è anche il Percorso Abilitante Speciale (PAS, un acronimo dal suono vagamente speranzoso), ovviamente in cambio dei soliti tremila euro che gli Atenei sono sempre pronti a riscuotere, a riprova del fatto che ormai l'Università è occupata da lobby che considerano la Scuola solo una preda da spolpare.
La lobby universitaria cavalca con disinvoltura le critiche contro la presunta "aziendalizzazione", e l'altrettanto presunta "invalsizzazione" della Scuola. La "Scuola azienda" è solo uno slogan, mentre l'Invalsi è solo una delle tante truffe del privato ai danni del contribuente; ma ai due spauracchi la lobby universitaria pone come alternativa la solita "formazione" da parte della stessa Università, facendo aleggiare agli insegnanti la prospettiva che questa “formazione" venga riconosciuta come ore retribuite.
Ma con l'articolo 21 del DDL, Renzi già si è preparata la marcia indietro sulla questione delle assunzioni. Dopo le proteste e la "trattativa", è prevedibile che si giungerà ad un finto "compromesso", in base al quale si autorizzeranno i precari a sperare ancora. Ovviamente in cambio della partecipazione ad un altro corso, e di altri tremila euro. Se alla cleptocrazia la prossima volta gliene basteranno tremila.
L'ancora vaga "Coalizione Sociale" di Landini si andrebbe quindi a scontrare con un tipo di sistema politico i cui contorni non sono ancora ben distinguibili da parte di coloro che si muovono sugli schemi consueti della difesa dei diritti e della Costituzione. Il famoso documento della multinazionale finanziaria JP Morgan - che dichiarava la necessità dilasciarsi alle spalle le attuali "Costituzioni antifasciste" -, è stato oggetto di vari fraintendimenti. Molti lo hanno persino letto come una indiretta celebrazione di quelle Costituzioni, considerandole come un argine al dilagare di logiche puramente aziendali. In realtà, se si legge il documento con più attenzione, ci si accorge che le cose stanno diversamente. Le "Costituzioni antifasciste" vengono infatti individuate da Jp Morgan come un ottimo bersaglio fisso attorno al quale raccogliere i dissensi e le opposizioni.
La guerra mondiale aveva realizzato le sue aggregazioni antifasciste sulla base di una concezione riduttiva del fascismo stesso, interpretato come mera anti-democrazia. Solo uno sguardo storico meno coinvolto negli eventi, ha potuto scorgere nel fascismo, ed ancora più conseguentemente nel nazismo, l'applicazione scientifica nella metropoli capitalistica di quei metodi coloniali già sperimentati nella periferia. Sono state multinazionali come Bayer, IBM, Deutsche Bank, Standard Oil a creare il modello Auschwitz, e proprio le multinazionali oggi ne sono le vere eredi.
La cleptocrazia non è "questione morale", ma un assetto di dominio ed un rapporto sociale. Il sistema coloniale si regge sul raccordo tra la cleptocrazia multinazionale e le cleptocrazie locali, senza un progetto sociale che vada oltre la predazione. Da qui la schizocrazia degli slogan in contraddizione l'uno con l'altro, poiché il linguaggio ufficiale accorpa la funzione della comunicazione con quella di mettere in confusione le prede.

TTIP E TPP, gli accordi invisibili …


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DI
THOMAS FAZI
Parallelamente all’accordo commerciale attualmente in discussione con l’Unione Europea (il TTIP), gli USA stanno negoziando un accordo analogo con 11 paesi dell’Asia e del Pacifico: l’accordo TransPacifico (Trans-Pacific Partnership, TPP). Walden Bello, uno dei critici più importanti della globalizzazione neoliberista delle multinazionali, identifica qual è la strategia globale che sostiene i due trattati. Il giornalista italiano Thomas Fazi l’ha intervistato per il sito web Open Democracy.
Thomas Fazi: Oggi gli accordi di libero commercio bilaterali e regionali (o meglio, gli accordi megaregionali, come il TTIP e il TPP) hanno di fatto sostituito i negoziati nel seno dell’OMC. Siamo entrati in una nuova fase della globalizzazione?
Walden Bello: Si. Credo che la fase trionfale della globalizzazione, che ebbe il suo zenith negli anni ’90 e poi cominciò a decadere dopo le mobilitazioni di Seattle del 1999, sia definitivamente finita.
Oggi ci troviamo in una situazione nella quale la globalizzazione spinta dalle grandi imprese e dal neoliberismo ha condotto ad una grande crisi. Potremmo dire che il concetto stesso di globalizzazione spinto dalle grandi imprese è in crisi. La sua credibilità è stata gravemente danneggiata. Però, naturalmente, esistono tutt’ora interessi molto forti (appoggiati dalle elites tecnocratiche e da gran parte del mondo accademico) che continuano a promuovere soluzioni neoliberiste, come il TTIP e il TTP.
In che misura il movimento anti-globalizzazione e anti-libero commercio del finale dei ’90 e primi 2000 ha contribuito a minare il paradigma della globalizzazione spinta dalle grandi imprese?
Credo che il risultato più importante del movimento fu che diede un autentico scossone al trionfalismo e alla credibilità di tutto il progetto di una globalizzazione spinta dalle grandi imprese. Seattle fu un avvenimento veramente storico, nel quale l’azione della gente nelle strade rivelò alla fine che il Re era nudo. Anche prima di Seattle, risultava già chiaro in molte statistiche che la globalizzazione stava portando ad una maggior povertà e disuguaglianza e stava creando vari tipi di inefficienze, però in un certo senso questa realtà non riusciva a farsi strada. Ciò a cui assistemmo fu non solo lo sgretolarsi del livello ministeriale dell’OMC, ma quello di tutto il paradigma. Credo che questo fu un risultato chiaro del movimento antiglobalizzazione: esso realmente mostrò che c’era un lato oscuro della globalizzazione, che stava creando il contrario di ciò che prometteva.
L’erosione dell’OMC è stata fondamentale, perché si supponeva che sarebbe stato strumento primordiale della globalizzazione. Stiamo parlando del più ambizioso codice legale commerciale della storia, e questa architettura è ora ad un punto morto.
Questa è la ragione per cui negli anni recenti hanno cominciato a ritirarsi verso accordi di libero commercio (ALC) bilaterali e multilaterali. Però gli ALC (promossi inizialmente da UE, USA e Giappone) sono considerati da questi paesi come disposizioni proprie di una seconda opzione, risultata dal mancato raggiungimento di quella sorte di consenso universale che avevano cercato di far funzionare nel seno dell’OMC. Questo non significa sottostimare la dannosa ripercussione di accordi come il TTIP e TPP. Però credo che siano anche molto fragili. E’ sufficiente vedere la crescente opposizione della società civile al TTIP in Europa, o la resistenza degli interessi dall’agrobusiness al TPP in una serie di paesi asiatici.
Quali sono le somiglianze tra il TTIP e il TPP?
I due trattati sono molto simili. In primo luogo, entrambi si stanno negoziando in segreto; come dichiarò il vecchio rappresentante commerciale nordamericano, Ron Kirk, se si negoziassero apertamente, non avrebbero la minima opportunità di ottenere l’approvazione della gente. In secondo luogo, non ha a che vedere tanto con il commercio, anche se ci sono aspetti commerciali in tutto ciò (come maggiori riduzioni delle tariffe doganali); ha a che vedere in realtà con l’affermazione del controllo imprenditoriale su ogni aspetto delle nostre vite, per mezzo dei diritti di proprietà intellettuale e le disposizioni investitori-Stato (le infami ISDS), nelle quali basicamente, i diritti sovrani degli stati sono menomati tramite la possibilità di essere citati in giudizio dalle grandi aziende.
In terzo luogo, ambedue hanno una componente geopolitica: Il TTIP è in realtà il braccio economico della NATO e ha chiaramente come obiettivo contenere la Russia; il TPP, d’altro canto, è evidentemente un tentativo molto forte di contenere la Cina e di creare un blocco economico contrario in Asia.
Più in generale mi sembra molto chiaro che tra gli obiettivi di ambo i progetti c’è il sorgere dei BRICS e gli sforzi che si stanno facendo per creare un blocco economico alternativo a quello occidentale. In fine, credo che il TTIP e il TTP hanno una componente ideologica in sé, nella misura in cui si spacciano come rappresentazioni dei “buoni” valori occidentali (libero commercio, civiltà, Stato di diritto, ecc…) contrapposti ai valori alieni degli “altri”.
Questo anche sottolinea l’ipocrisia del racconto del “libero commercio”: in un quadro coerente di libero commercio, questi accordi dovrebbero estendersi a paesi come Russia e Cina. Però è chiaro che non è questo il caso.
Sarebbe il caso di considerare questi accordi (e specialmente il TPP) come forme di neocolonialismo o neoimperialismo, nello stesso stile degli accordi di libero commercio imposti dalle nazioni egemoniche ai paesi in via di sviluppo?
Considerando che sia nel caso del Ttip che del Tpp non siamo di fronte a “semplici” accordi multilaterali di libero commercio, ma a dei trattati in cui la componente geopolitica e securitaria è importante tanto quanto quella economica, non sarebbe esagerato definirli una forma di neoimperialismo. Attraverso questi trattati, le potenze egemoni (Stati Uniti ed Europa) puntano innanzitutto a rafforzare la loro sfera di influenza e ad arginare quelle forze che minacciano la supremazia dell’Occidente. In questo senso, così come il Ttip è da considerarsi un’estensione economica della Nato, anche il Tpp è strettamente legato alla politica di espansionismo militare degli Stati Uniti in Asia, detta “pivot to Asia”. In questo senso, questi trattati rischiano di avere un effetto fortemente destabilizzante dal punto di vista geopolitico.
Lei ha citato l’aspetto della segretezza, che è uno dei punti su cui i movimenti anti-Ttip battono maggiormente il chiodo. Nel caso dell’Europa, sappiamo che in molti casi anche gli stessi parlamenti nazionali sono tenuti all’oscuro dei negoziati, che sono gestiti dalla Commissione europea. Nel caso del Tpp, dove gli USA non hanno un interlocutore «privilegiato» come la Commissione con cui dialogare, come si svolgono i negoziati?
Quello che sta succedendo è che l’accordo lo stanno discutendo i più alti negoziatori commerciali. E alle grandi imprese si concede un accesso speciale agli stessi, però ciò non è concesso ai cittadini in generale e neanche ai parlamenti nazionali. In modo che fondamentalmente i gruppi dei grandi affari sono gli unici ad averne accesso. Questo è qualcosa di totalmente antidemocratico. I parlamentari dovrebbero disporre di questo accesso. La verità è che mi lascia assai perplesso il perché non si sottometta tutto ciò ad un giudizio, perché i parlamenti non pongano una sfida più forte a questa mancanza di trasparenza o facciano uso delle diverse leggi informative di questo paese.
Credo che parte del problema risieda nel fatto che i parlamenti della maggioranza dei paesi che fanno questi accordi sono dominati da partiti conservatori che sono ideologicamente di parte rispetto al neoliberismo, sono vincolati al capitale imprenditoriale e non valorizzano la trasparenza. Lo stesso può dirsi, per certo, dell’Europa.
Negli ultimi anni una serie di paesi asiatici europei (come le antiche “tigri asiatiche”) hanno reagito di fronte al disastroso effetto delle “riforme strutturali” imposte dal FMI e dalla Banca Mondiale praticando misure politiche più protezioniste e facendo “retrocedere” parzialmente il processo di globalizzazione. Come sta influenzando tutto ciò i negoziati del TPP, che vanno in direzione opposta?
La globalizzazione si è sempre appoggiata con forza nella produzione orientata all’esportazione, però la crisi e la depressione di lungo periodo negli USA e Europa, che erano mercati centrali chiave per le esportazioni asiatiche, hanno obbligato molti paesi asiatici a riesaminare i modelli di economia politica che stavano seguendo.
Credo che in molti paesi si sono resi conto che dovevano tornare ad una crescita interna orientata alla domanda, e quello che significa è, chiaramente, che tra l’altro, bisogna prestare reale attenzione al mercato interno e ad una distribuzione più egualitaria della rendita.
E questo ha significato utilizzare qualsiasi piccolo spazio politico restante per imporre restrizioni al commercio, per mezzo di norme sanitarie e di sicurezza, così come ai flussi finanziari, per mezzo del controllo dei capitali (che addirittura il FMI ha riconosciuto essere efficaci per prevenire crisi destabilizzanti). In questo senso, accordi come il TTIP e il TPP, che sono un tentativo di fermare questo processo di de-globalizzazione, vanno contro il corso della storia. Lo stesso si può dire della strategia neomercantilista diretta dalla Germania e cercata dall’Europa.
Parlando di Europa, i movimenti sociali della fine dei ’90 e della prima decade del 2000 ebbero successo nel riunire centinaia di migliaia di persone contro la globalizzazione neoliberale. Oggi giorno, questo sembra un impresa impossibile, anche se l’accordo che attualmente si sta negoziando, il TTIP, concerne i cittadini europei e nordamericani molto di più rispetto ad anteriori accordi di libero commercio.
La dinamica dei movimenti è strettamente legata alla dinamica contraddittoria della crisi. Ad esempio, dovremmo chiederci perché, in mezzo alla crisi, tanti paesi europei si sono spostati a destra.
Mi pare che questo dimostri che la crisi porta con sé le sue proprie dimensioni, che ripetutamente tolgono energia ai movimenti politici. Tuttavia, i devastanti effetti sociali di quattro anni d’austerità in Europa stanno creando le condizioni per il sorgere di un solido movimento anti-neoliberista e contro le grandi imprese.
La questione è sapere chi sarà capace di approfittare dell’ira popolare, la sinistra radicale o la destra populista? Purtroppo, quest’ultima sembra stia vincendo in questo stesso momento. Credo veramente che la sinistra debba muoversi con molta rapidità.
Walden Bello Rappresenta Akbayan (Partito d’Azione Cittadina) nel parlamento filippino ed è autore e coautore di 19 libri. Gli ultimi sono Capitalism’s Last Stand? (London Zed, 2013) e State of Fragmentation: The Philippines in Transition (Quezon City: Focus on the Global South and FES, 2014).
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di MATTANZA

I BRICS posano il primo mattone della Banca d'Investimenti


Foto di Roberto Stuckert Filho
La strategia che i BRICS stanno adottando contro il Fondo Monetario Internazionale porterà a profondi cambiamenti nell’economia internazionale. Il primo passo concreto di sfida verso le istituzioni a matrice occidentale è la costituzione di un fondo di investimenti alternativo al FMI.
L’undici aprile il Governo russo ha presentato alla Duma, il Parlamento nazionale, un disegno di legge per istituire il primo nucleo del fondo. I cinque paesi forniranno un totale di 100 miliardi di dollari. Il drago cinese investe di più con 41 miliardi, il Sud Africa con 5 miliardi, mentre Russia, Brasile e India ne daranno 18.
Il progetto è rivoluzionario perché per importi inferiori al 30% dei limiti nazionali all’ammontare dei prestiti, i paesi non dovranno sottostare a nessun accordo con il Fondo Monetario Internazionale, rompendo con lo schema in vigore dalla fon de della Seconda Guerra Mondiale.
La banca sarà gestita da un comitato dei rappresentanti dei vari paesi e il coordinatore sarà a turno uno dei paesi, quest’anno è la Russia. Il sistema è molto più democratico rispetto a quello del FMI in cui il Consiglio Direttivo è formato da membri permanenti che hanno la quota maggiore (Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia e Regno Unito), mentre gli altri posti sono eletti dal Consiglio dei Governatori, privilegiando i paesi occidentali.
Molti condividono l’obiettivo dei Brics. Perfino Guennadi Ziugánov, leader del Partito Comunista Russo, l’oppositore principale di Putin, ha dichiarato che: “Il blocco BRICS è una delle soluzioni più di successo dal punto di vista di un contrappeso al Fondo Monetario Internazionale e alla NATO. Io appoggerei al massimo questa unione perché ha grandi prospettive geopolitiche.”
Fonte: http://www.testelibere.it/article/i-brics-posano-il-primo-mattone-della-banca-dinvestimenti

lunedì 20 aprile 2015

Fondo monetario, Dr Jekyll e Mr Hyde: adatta messaggi a diktat della politica


Fondo monetario, Dr Jekyll e Mr Hyde: adatta messaggi a diktat della politica

Il Fondo si smentisce spesso: l’austerità fa male, ma in Grecia no, la flessibilità crea disoccupati e deprime i salari, però va applicata. Motivo: i “tecnici” sono al servizio delle potenze globali o locali dominanti
“Contrordine compagni”. Il popolo di Twitter ha salutato con uno sberleffo la notizia fornita dal ilfattoquotidiano.it il 10 aprile scorso:il Fondo monetario internazionale (Fmi) ci avrebbe ripensato, “liberalizzare il mercato non spinge l’economia”. Nota Mauro Del Corno che questa presa di posizione, sostenuta nell’ultimo numero del World Economic Outlook (Weo), azzoppa il principale cavallo di battaglia dell’ideologia liberista, inforcato dal compagno Renzi per farci adottare il Jobs Act. Il lettore potrebbe essere colto da un certo sgomento: “Ma come!? Istituzioni cosìprestigiose sconfessano l’anno dopo ciò su cui spergiuravano l’anno prima? Allora è vero che nel procelloso mare della crisi siamo privi di bussola, perché, come amano ripetere gli epistemologi da bar, l’economia non è una scienza! Certo – concluderà il lettore – siamo proprio messi male!”. Ci sentiamo di rassicurarlo: la verità è che siamo messi peggio, perché a livello scientifico non c’è stato alcun cambiamento di rotta. Che le riforme del mercato del lavoro a base di flessibilità fossero come la Corazzata Kotiomkin di fantozziana memoria (“92 minuti di applausi”) gli studi specialistici lo avevano appurato da tempo e senza appello.
Il problema è un altro, ed è ben noto: gli organismi millantati come “tecnici”, quali il Fmi o la Bce, sono a tutti gli effetti organi di indirizzo politico al servizio delle potenze globali o locali dominanti (Usa e Germania). Il loro messaggio si adatta ai mutevoli diktat del ringhioso potente di riferimento: all’occorrenza, prestigiosi colleghi mentono sapendo di mentire, per salvare il loro scranno in quegli autentici paradisi fiscali che sono le istituzioni multilaterali (Fmi, Ocse, Bce), fatti di stipendi a quattro zeri spesso sottratti a qualsiasi fisco. Il risultato di questo modo di agire è quello di gettare intere popolazioni nella miseria e l’intera professione economica nel discredito. Prendiamo ad esempiol’austerità in Grecia. Il presupposto perché questa funzionasse era che per ogni euro di taglio alla spesa, il Pil diminuisse meno di un euro (o addirittura aumentasse, come sostenuto dai due noti fantasisti del Corriere della SeraAlesina e Giavazzi).
In termini tecnici, occorreva che il “moltiplicatore” (il numero che moltiplicato per la variazione della spesa pubblica fornisce la corrispondente variazione del Pil) fosse minore di uno, altrimenti ogni taglio di spesa (quindi di deficit, quindi di debito) sarebbe stato vanificato da un più che proporzionale calo di reddito (quindi di entrate fiscali). Ma siccome la Grecia doveva esserefrantumata, per cavarne il succo da servire ai creditori esteri, cosa diceva a marzo 2012 il servile Fmi nel suo Country Report? Che il moltiplicatore della Grecia era solo 0,5, quindi l’austerità non le avrebbe fatto male! Per ogni taglio di un euro il Pil greco sarebbe calato solo di mezzo euro, e tutti sarebbero vissuti austeri e contenti. Tuttavia, come ho mostrato nel mio blog, gli studi disponibili all’epoca chiarivano che il moltiplicatore greco era almeno tre volte tanto (intorno a 1,5) e quindi i tagli avrebbero distrutto l’economia greca. Non solo: lo stesso Fmi in contemporanea affermava che siccome l’economia era ancora depressa e i tassi di interesse bassissimi, era prevedibile che i moltiplicatori fossero piuttosto alti (leggi: maggiori di uno) e quindi terapie d’urto a base di tagli erano sconsigliabili (p. 172 del Weo di aprile 2012). Ciliegina sulla torta, a p. 41 del Weo di ottobre 2012,Blanchard si chiede, anima candida: “Stiamo forse sottostimando i moltiplicatori?” Ma no, che dici! Per avvalorare un piano di aggressione criminale a un paese sovrano avete scelto una stima pari a un terzo di quella comunemente accettata! Se ti tagliassero di due terzi lo stipendio te ne accorgeresti, Olivier?
E la flessibilità? Stessa identica storia. Sentite questa: “Un aumento (della flessibilità del lavoro, ndr) inizialmente genera una diminuzione del salario reale e un aumento della disoccupazione” perché “diminuisce il potere contrattuale dei lavoratori”, anche se dopo una simile riforma il futuro “dovrebbe essere roseo” (per chi ci arriva, ovviamente). Chi sono gli autori di questa ardita asserzione? Tenetevi forte: ancora una volta il candido Blanchard, in compagnia dell’austero Giavazzi (NBER Working Paper 8120 del 2001). Ora, a voi pare che in una crisi di domanda con disoccupazione alle stelle sia consigliabile una cosa che fa diminuire i salari (quindi la spesa delle famiglie) e aumentare la disoccupazione? Certo che no. E a Blanchard, capo economista del Fmi, sarà sembrata consigliabile? No, visto che, fra l’altro, era stato proprio lui a consigliare il contrario da una tribuna così prestigiosa e in tempi non sospetti. Ma nell’aprile 2012 il Weo, emesso dall’organizzazione di cui lui è chief economist, si sperticava in lodi sulle riforme del lavoro che “avevano stabilizzato l’Eurozona” (a pag. XV). Ora che gli Usa si preoccupano, perché è successo nel 2015 quello che Blanchard aveva previsto nel 2001 (calo della domanda in seguito alle riforme, con pericolo per la ripresa mondiale), ecco che il docile Blanchard, a un fischio del padrone, dice la verità, sconfessando le baggianate avallate nel 2012. Se questo è un economista… Per “errori” venali e intenzionali come questi non ci sarà alcun tribunale se non quello divino, e in questo caso, Iddio mi perdoni, provo una certa insofferenza per i tempi della giustizia.
Da Il Fatto Quotidiano di mercoledì 15 aprile
Link: http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/04/19/fondo-monetario-dr-jekyll-mr-hyde-adatta-messaggi-diktat-politica/1596478/

venerdì 17 aprile 2015

La rivoluzione monetaria parte dall'Islanda

Foto by pixabay.com
La torre apparentemente indistruttibile dell’ordine economico mondiale sta perdendo mattoni. Dopo la costituzione di una banca dei paesi emergenti alternativa al FMI e la raccolta firme per un referendum in Svizzera per una moneta pubblica, il Governo islandese prepara una riforma monetaria dalla portata storica.
Recentemente, il membro del Partito del Progresso Frosti Sigurjonsonn, sotto l’egida del Primo Ministro, ha presentato il dossier“Un migliore sistema finanziario per l’Islanda” con lo scopo di illustrare un possibile cambiamento del sistema monetario.
L’obiettivo è la stabilizzazione del sistema finanziario islandese che ha sofferto “più di 20 tipi diversi di crisi finanziarie dal 1875 ad oggi”.
Il piano attacca due capisaldi del capitalismo odierno:
·        Le banche sono protette dai soldi pubblici in caso di bisogno. Infatti, gli Stati assicurano i depositi con un livello minimo di rimborso ai correntisti, nel caso in cui la banca dichiari fallimento. Il problema sorge quando le banche “too big to fail” crollano e lo Stato deve intervenire pesantemente con i soldi pubblici per salvare banche. Peggio ancora, è questa garanzia che ha spinto gli istituti finanziari a scommettere sempre di più nella finanza-casinò, senza che gli investitori controllassero l’operato delle banche e i troppi rischi che correvano. Come scrive Daniele Chicca su Wall Street Italia, “assicurare i depositi bancari garantisce che il denaro finisca nei forzieri delle banche che offrono i rendimenti più alti. Se un deposito bancario è assicurato, un cliente non è interessato ai rischi intrapresi. Al contempo le banche che offrono i tassi più alti di ritorno  sui depositi prendono i rischi maggiori per essere in grado a loro volta di ripagare gli interessi maturati con i clienti, creando un circolo vizioso.”
Le banche creano denaro scritturale dal nulla. Come? Le banche sono obbligate per legge a tenere solamente il 2,5% dei depositi nelle casse della Banca Centrale e il restante possono prestarlo, ma, come segnala il documento per la riforma monetaria, “la banca commerciale prestatrice aumenta il saldo del conto del richiedente il prestito senza togliere soldi a nessun altro conto [e] il deposito addizionale aumenta il livello della moneta nell’economia.” Peccato che il denaro creato dai privati incide sull’economia generale, secondo logiche private che nulla hanno a che vedere con il benessere generale. Per dimostrare la sregolatezza della creazione del denaro operata dalle banche, il rapporto afferma che in cinquanta anni la valuta islandese ha perso il 99,7% del potere d’acquisto.
La proposta del governo islandese prende spunto dalle teorie del “Sovereign Money System” che si rifanno alle idee dell’economista degli Anni ’20 Frederick Soddy, recentemente riprese nel libro “Modernising Money”, manifesto della Positive Money.
Sono tre i fulcri della Riforma:
1.     L’impossibilità per le banche di prestare denaro che non hanno
2.     Rendere responsabili dei rischi finanziari gli istituti bancari e gli investitori e non lo Stato
3.     Affidare la creazione di denaro a una commissione che, in base a paletti scelti dal Parlamento, decide quanta moneta la Banca Centrale può cedere al Governo (il Documento precisa che questa moneta non verrebbe prestata).
Se l’Islanda diventasse la pioniera nel modernizzare la moneta, sarebbe l’esempio virtuoso per il mondo intero. E, anche se non ancora realizzata, è un altro segnale che possiamo vincere la lotta contro l’apparato finanziario.
Fonte: http://testelibere.it/article/la-rivoluzione-monetaria-parte-dallislanda

mercoledì 1 aprile 2015

Il complotto del fruttivendolo – Moneta e inflazione (libro)


Di Daniele Pace*

Nel mio nuovo libro, “Il Complotto del Fruttivendolo – Moneta e inflazione”, affronto con un approccio del tutto nuovo il tema dell'aumento dei prezzi in relazione all'incremento dell'offerta di moneta.
Uno dei motivi per cui non si vuole lasciare ai governi la possibilità di gestire la politica monetaria è quello dell'inflazione, per cui eccessi di moneta provocherebbero danni irreparabili.
In realtà, non solo questa causa dell'inflazione non è mai stata dimostrata, ma furono accesi anche i dibattiti tra gli economisti che vedevano questa teoria come del tutto sbagliata.
Oggi, la crisi dei debiti sovrani sta riproponendo lo “scontro” tra chi sostiene la validità di questa teoria e chi la considera del tutto fallace.
Il libro ripercorre brevemente la storia della Teoria Quantitativa della Moneta che ha portato a questo autentico dogma dell'economia moderna, le sue incongruenze e i suoi avversari, per sviluppare un nuovo pensiero, un nuovo approccio al problema, e arrivare a innovative conclusioni utili per quegli economisti che non hanno mai dato validità alla teoria, sconfessata dai dati statistici e dalla logica. Si arriva così al teorema della preesistenza dei valori nell'equazione di Fisher, decretandone in questo modo l'inapplicabilità per la determinazione di un legame tra la massa monetaria e l'inflazione.
Ed è qui l'approccio innovativo e finora mai avanzato nell'analisi della Teoria Quantitativa della Moneta. Non solo un rapporto identitario come avanzato da chi ne denuncia le incongruenze, ma un teorema logico che parte dai tre assurdi, cardine dell'ipotesi, che si affermerebbero con l'equazione di Fisher, per arrivare alla tesi e dimostrare la preesistenza dei valori e quindi il loro inserimento come costanti nell'equazione.
Assumendo infatti valida l'interpretazione di quegli economisti che vogliono l'aumentare della massa monetaria causa dell'inflazione, pur considerando gli altri fattori, avremmo tre assurdi sia logici che dettati dai fatti e dall'esperienza:

  1. La banca centrale e il sistema bancario deciderebbero e comunicherebbero i prezzi delle merci e dei servizi.
  2. I prezzi si auto-aggiornerebbero ad insaputa dei produttori/rivenditori.
  3. Esisterebbe il “Complotto del fruttivendolo”, dove produttori e commercianti, esperti di materie monetarie, cospirerebbero ad insaputa dei consumatori per spartirsi la massa monetaria.

È del tutto evidente che nessuno di questi assurdi possa essere reale, e che quindi l'equazione di Fisher non regga sul piano logico quando si tenta di utilizzarla per giustificare l'aumento dei prezzi.
E siccome “logica e matematica costituiscono il nucleo razionale della scienza e vanno di pari passo unendo i loro campi”, è la logica a suggerire di stabilire una relazione tra i fattori dell'equazione e l'ambito comportamentale in cui questi vengono determinati.
Non si conosce nessun imprenditore/rivenditore che stabilisca i suoi prezzi in base alla massa monetaria, ne tanto meno esistono fenomeni paranormali in cui questi si adeguino autonomamente ad essa.
Le ipotesi conducono alla tesi in cui la logica afferma la preesistenza del fattore P (e degli altri fattori) da inserire come costante nell'equazione in quanto questo è deciso a priori dai soggetti economici e non dalla massa monetaria, unica variabile. Infatti sia i governi che le banche centrali, nei loro programmi economici, utilizzano i dati statistici di misurazione sul territorio forniti dagli Istituti nazionali predisposti per il calcolo dell'inflazione.

La conclusione è che l'equazione di Fisher non ha più nessuna validità sia nel dimostrare una relazione con l'inflazione che nel calcolo dell'offerta monetaria, vista la natura endogena della moneta moderna. Gli Stati sono liberi di emettere denaro mentre le banche centrali perdono il motivo della loro indipendenza in quanto la quantità di moneta non è determinate nell'inflazione.

Indice

PRIMA PARTE
Introduzione all'inflazione................................................................……….

5
Introduzione.............................................................................................…
7
Cosa e l'inflazione..................................................................................……
10
Le tre “cause” dell'inflazione.................................................................…….
12
Inflazione dei prezzi e svalutazione monetaria.......................................……..
14
Miti dell'inflazione: la falsa eguaglianza tra moneta-merce e Fiat System…..
17

SECONDA PARTE
La nascita del dogma......................................................................………


23
La nascita del dogma: la Teoria Quantitativa della Moneta....................……..
25
Il ciclo economico e l'inflazione.............................................................…….
34

TERZA PARTE
Il complotto del fruttivendolo e la preesistenza dei valori............……….


41
Gli assurdi di partenza: la logica e il prezzo...........................................……
43
Un interessante articolo di Philip Pilkington..........................................…….
48
L'ambito comportamentale e il prezzo...................................................…….
50
Preesistenza di P nell'ambito comportamentale......................................……
52
L'ambito comportamentale e gli altri fattori...........................................…..
55
Preesistenza di P, accertamento empirico e la costante nell'equazione...……
57
Preesistenza di V e T nello scambio: Riserva di Valore e circolazione...……
64
Conclusione...........................................................................................….
71

QUARTA PARTE
I dati statistici e i grafici.................................................................………..


77
I dati statistici...........................................................................................
79


*Daniele Pace è un ricercatore indipendente e scrittore del tema monetario. Nel novembre 2012 ha pubblicato il suo primo libro, “La Moneta dell'Utopia” e nel 2014 “Dialoghi con Auriti”. È relatore in numerose conferenze sul tema e collaboratore di rubriche, attivo per la diffusione e l'insegnamento della proprietà popolare della moneta e il suo valore indotto.

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Il complotto del fruttivendolo


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