mercoledì 22 aprile 2015

TTIP E TPP, gli accordi invisibili …


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DI
THOMAS FAZI
Parallelamente all’accordo commerciale attualmente in discussione con l’Unione Europea (il TTIP), gli USA stanno negoziando un accordo analogo con 11 paesi dell’Asia e del Pacifico: l’accordo TransPacifico (Trans-Pacific Partnership, TPP). Walden Bello, uno dei critici più importanti della globalizzazione neoliberista delle multinazionali, identifica qual è la strategia globale che sostiene i due trattati. Il giornalista italiano Thomas Fazi l’ha intervistato per il sito web Open Democracy.
Thomas Fazi: Oggi gli accordi di libero commercio bilaterali e regionali (o meglio, gli accordi megaregionali, come il TTIP e il TPP) hanno di fatto sostituito i negoziati nel seno dell’OMC. Siamo entrati in una nuova fase della globalizzazione?
Walden Bello: Si. Credo che la fase trionfale della globalizzazione, che ebbe il suo zenith negli anni ’90 e poi cominciò a decadere dopo le mobilitazioni di Seattle del 1999, sia definitivamente finita.
Oggi ci troviamo in una situazione nella quale la globalizzazione spinta dalle grandi imprese e dal neoliberismo ha condotto ad una grande crisi. Potremmo dire che il concetto stesso di globalizzazione spinto dalle grandi imprese è in crisi. La sua credibilità è stata gravemente danneggiata. Però, naturalmente, esistono tutt’ora interessi molto forti (appoggiati dalle elites tecnocratiche e da gran parte del mondo accademico) che continuano a promuovere soluzioni neoliberiste, come il TTIP e il TTP.
In che misura il movimento anti-globalizzazione e anti-libero commercio del finale dei ’90 e primi 2000 ha contribuito a minare il paradigma della globalizzazione spinta dalle grandi imprese?
Credo che il risultato più importante del movimento fu che diede un autentico scossone al trionfalismo e alla credibilità di tutto il progetto di una globalizzazione spinta dalle grandi imprese. Seattle fu un avvenimento veramente storico, nel quale l’azione della gente nelle strade rivelò alla fine che il Re era nudo. Anche prima di Seattle, risultava già chiaro in molte statistiche che la globalizzazione stava portando ad una maggior povertà e disuguaglianza e stava creando vari tipi di inefficienze, però in un certo senso questa realtà non riusciva a farsi strada. Ciò a cui assistemmo fu non solo lo sgretolarsi del livello ministeriale dell’OMC, ma quello di tutto il paradigma. Credo che questo fu un risultato chiaro del movimento antiglobalizzazione: esso realmente mostrò che c’era un lato oscuro della globalizzazione, che stava creando il contrario di ciò che prometteva.
L’erosione dell’OMC è stata fondamentale, perché si supponeva che sarebbe stato strumento primordiale della globalizzazione. Stiamo parlando del più ambizioso codice legale commerciale della storia, e questa architettura è ora ad un punto morto.
Questa è la ragione per cui negli anni recenti hanno cominciato a ritirarsi verso accordi di libero commercio (ALC) bilaterali e multilaterali. Però gli ALC (promossi inizialmente da UE, USA e Giappone) sono considerati da questi paesi come disposizioni proprie di una seconda opzione, risultata dal mancato raggiungimento di quella sorte di consenso universale che avevano cercato di far funzionare nel seno dell’OMC. Questo non significa sottostimare la dannosa ripercussione di accordi come il TTIP e TPP. Però credo che siano anche molto fragili. E’ sufficiente vedere la crescente opposizione della società civile al TTIP in Europa, o la resistenza degli interessi dall’agrobusiness al TPP in una serie di paesi asiatici.
Quali sono le somiglianze tra il TTIP e il TPP?
I due trattati sono molto simili. In primo luogo, entrambi si stanno negoziando in segreto; come dichiarò il vecchio rappresentante commerciale nordamericano, Ron Kirk, se si negoziassero apertamente, non avrebbero la minima opportunità di ottenere l’approvazione della gente. In secondo luogo, non ha a che vedere tanto con il commercio, anche se ci sono aspetti commerciali in tutto ciò (come maggiori riduzioni delle tariffe doganali); ha a che vedere in realtà con l’affermazione del controllo imprenditoriale su ogni aspetto delle nostre vite, per mezzo dei diritti di proprietà intellettuale e le disposizioni investitori-Stato (le infami ISDS), nelle quali basicamente, i diritti sovrani degli stati sono menomati tramite la possibilità di essere citati in giudizio dalle grandi aziende.
In terzo luogo, ambedue hanno una componente geopolitica: Il TTIP è in realtà il braccio economico della NATO e ha chiaramente come obiettivo contenere la Russia; il TPP, d’altro canto, è evidentemente un tentativo molto forte di contenere la Cina e di creare un blocco economico contrario in Asia.
Più in generale mi sembra molto chiaro che tra gli obiettivi di ambo i progetti c’è il sorgere dei BRICS e gli sforzi che si stanno facendo per creare un blocco economico alternativo a quello occidentale. In fine, credo che il TTIP e il TTP hanno una componente ideologica in sé, nella misura in cui si spacciano come rappresentazioni dei “buoni” valori occidentali (libero commercio, civiltà, Stato di diritto, ecc…) contrapposti ai valori alieni degli “altri”.
Questo anche sottolinea l’ipocrisia del racconto del “libero commercio”: in un quadro coerente di libero commercio, questi accordi dovrebbero estendersi a paesi come Russia e Cina. Però è chiaro che non è questo il caso.
Sarebbe il caso di considerare questi accordi (e specialmente il TPP) come forme di neocolonialismo o neoimperialismo, nello stesso stile degli accordi di libero commercio imposti dalle nazioni egemoniche ai paesi in via di sviluppo?
Considerando che sia nel caso del Ttip che del Tpp non siamo di fronte a “semplici” accordi multilaterali di libero commercio, ma a dei trattati in cui la componente geopolitica e securitaria è importante tanto quanto quella economica, non sarebbe esagerato definirli una forma di neoimperialismo. Attraverso questi trattati, le potenze egemoni (Stati Uniti ed Europa) puntano innanzitutto a rafforzare la loro sfera di influenza e ad arginare quelle forze che minacciano la supremazia dell’Occidente. In questo senso, così come il Ttip è da considerarsi un’estensione economica della Nato, anche il Tpp è strettamente legato alla politica di espansionismo militare degli Stati Uniti in Asia, detta “pivot to Asia”. In questo senso, questi trattati rischiano di avere un effetto fortemente destabilizzante dal punto di vista geopolitico.
Lei ha citato l’aspetto della segretezza, che è uno dei punti su cui i movimenti anti-Ttip battono maggiormente il chiodo. Nel caso dell’Europa, sappiamo che in molti casi anche gli stessi parlamenti nazionali sono tenuti all’oscuro dei negoziati, che sono gestiti dalla Commissione europea. Nel caso del Tpp, dove gli USA non hanno un interlocutore «privilegiato» come la Commissione con cui dialogare, come si svolgono i negoziati?
Quello che sta succedendo è che l’accordo lo stanno discutendo i più alti negoziatori commerciali. E alle grandi imprese si concede un accesso speciale agli stessi, però ciò non è concesso ai cittadini in generale e neanche ai parlamenti nazionali. In modo che fondamentalmente i gruppi dei grandi affari sono gli unici ad averne accesso. Questo è qualcosa di totalmente antidemocratico. I parlamentari dovrebbero disporre di questo accesso. La verità è che mi lascia assai perplesso il perché non si sottometta tutto ciò ad un giudizio, perché i parlamenti non pongano una sfida più forte a questa mancanza di trasparenza o facciano uso delle diverse leggi informative di questo paese.
Credo che parte del problema risieda nel fatto che i parlamenti della maggioranza dei paesi che fanno questi accordi sono dominati da partiti conservatori che sono ideologicamente di parte rispetto al neoliberismo, sono vincolati al capitale imprenditoriale e non valorizzano la trasparenza. Lo stesso può dirsi, per certo, dell’Europa.
Negli ultimi anni una serie di paesi asiatici europei (come le antiche “tigri asiatiche”) hanno reagito di fronte al disastroso effetto delle “riforme strutturali” imposte dal FMI e dalla Banca Mondiale praticando misure politiche più protezioniste e facendo “retrocedere” parzialmente il processo di globalizzazione. Come sta influenzando tutto ciò i negoziati del TPP, che vanno in direzione opposta?
La globalizzazione si è sempre appoggiata con forza nella produzione orientata all’esportazione, però la crisi e la depressione di lungo periodo negli USA e Europa, che erano mercati centrali chiave per le esportazioni asiatiche, hanno obbligato molti paesi asiatici a riesaminare i modelli di economia politica che stavano seguendo.
Credo che in molti paesi si sono resi conto che dovevano tornare ad una crescita interna orientata alla domanda, e quello che significa è, chiaramente, che tra l’altro, bisogna prestare reale attenzione al mercato interno e ad una distribuzione più egualitaria della rendita.
E questo ha significato utilizzare qualsiasi piccolo spazio politico restante per imporre restrizioni al commercio, per mezzo di norme sanitarie e di sicurezza, così come ai flussi finanziari, per mezzo del controllo dei capitali (che addirittura il FMI ha riconosciuto essere efficaci per prevenire crisi destabilizzanti). In questo senso, accordi come il TTIP e il TPP, che sono un tentativo di fermare questo processo di de-globalizzazione, vanno contro il corso della storia. Lo stesso si può dire della strategia neomercantilista diretta dalla Germania e cercata dall’Europa.
Parlando di Europa, i movimenti sociali della fine dei ’90 e della prima decade del 2000 ebbero successo nel riunire centinaia di migliaia di persone contro la globalizzazione neoliberale. Oggi giorno, questo sembra un impresa impossibile, anche se l’accordo che attualmente si sta negoziando, il TTIP, concerne i cittadini europei e nordamericani molto di più rispetto ad anteriori accordi di libero commercio.
La dinamica dei movimenti è strettamente legata alla dinamica contraddittoria della crisi. Ad esempio, dovremmo chiederci perché, in mezzo alla crisi, tanti paesi europei si sono spostati a destra.
Mi pare che questo dimostri che la crisi porta con sé le sue proprie dimensioni, che ripetutamente tolgono energia ai movimenti politici. Tuttavia, i devastanti effetti sociali di quattro anni d’austerità in Europa stanno creando le condizioni per il sorgere di un solido movimento anti-neoliberista e contro le grandi imprese.
La questione è sapere chi sarà capace di approfittare dell’ira popolare, la sinistra radicale o la destra populista? Purtroppo, quest’ultima sembra stia vincendo in questo stesso momento. Credo veramente che la sinistra debba muoversi con molta rapidità.
Walden Bello Rappresenta Akbayan (Partito d’Azione Cittadina) nel parlamento filippino ed è autore e coautore di 19 libri. Gli ultimi sono Capitalism’s Last Stand? (London Zed, 2013) e State of Fragmentation: The Philippines in Transition (Quezon City: Focus on the Global South and FES, 2014).
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di MATTANZA

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